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DOMENICA DELLE PALME
E DELLA PASSIONE DEL SIGNORE 
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LETTURE: Is
50,4-7; Sal
21; Fil 2,6-11; Lc
22,14-23.56
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Cristo va incontro alla morte con libertà di figlio
Tutto
l’impegno quaresimale di penitenza e di conversione in questa domenica
viene focalizzato attorno al momento cruciale del mistero di Cristo e
della vita cristiana: la croce come obbedienza al Padre e solidarietà
con gli uomini, la sofferenza del Servo del Signore (cf prima lettura)
inseparabilmente congiunta alla gloria (seconda lettura). La strada che
Gesù intraprende per salvare (= per regnare) si pone in contrasto con
ogni più ragionevole attesa perché egli sceglie non la forza e la
ricchezza, ma la debolezza e la povertà. Il compendio della celebrazione
odierna è offerto già nella monizione che introduce la processione delle
Palme: «Questa assemblea
liturgica è preludio alla Pasqua del Signore... Gesù entra in
Gerusalemme per dare compimento al mistero della sua morte e
risurrezione... Chiediamo la grazia di seguirlo fino alla croce per
essere partecipi della sua risurrezione».
Il mistero della croce
Vertice della liturgia della Parola è la lettura della Passione: è a
questo centro che occorre volgere l’attenzione, più che alla processione
delle palme. I ramoscelli d’olivo non sono un talismano contro possibili
disgrazie; al contrario, sono il segno di un popolo che acclama al suo
Re e lo riconosce come Signore che salva e che libera. Ma la sua
regalità si manifesterà in modo sconcertante sulla croce. Proprio in
questo misterioso scandalo di umiliazione, di sofferenza, di abbandono
totale si compie il disegno salvifico di Dio. Nell’impatto con la croce
la fede vacilla: il peso di una forca schiaccia il Giusto per eccellenza
e sembra dar ragione alla potenza dell’ingiustizia, della violenza e
della malvagità. Sale inquietante la domanda del «perché» di
questo cumulo insopportabile di sofferenza e di dolore che investe Gesù,
il Crocifisso, e con lui tutti i crocifissi della storia. Sulla croce
muoiono tutte le false immagini di Dio che la mente umana ha partorito e
che noi, forse, continuiamo inconsciamente ad alimentare. Dov’è
l’onnipotenza di Dio, la sua perfezione, la sua giustizia? Perché Dio
non interviene in certe situazioni intollerabili?
« Portò il peso dei nostri
peccati »
Solo la fede è capace di leggere l’onnipotenza di Dio nell’impotenza di
una croce. E’ l’impotenza dell’Amore. Gesù ha talmente amato il Padre
(«obbediente fino alla morte e alla morte di croce»: seconda lettura) da
accogliere liberamente il suo progetto «per
noi uomini e per la nostra salvezza». Gesù non muore perché lo uccidono,
ma perché egli stesso «si
consegna» (cf Gal 2,20)
con libertà sovrana, per amore. Questo amore supremo che egli dona
perdendo se stesso e diventando solidale con tutte le umiliazioni, i
dolori, i rifiuti patiti dall’uomo, dà la misura dell’annientamento (cf
seconda lettura) di Gesù e manifesta il rovesciamento delle situazioni
umane: la vera grandezza dell’uomo non sta nel potere, nella ricchezza,
nella considerazione sociale, ma nell’amore che condivide, che è
solidale, che è vicino ai fratelli, che si fa servizio. Dio vince il
dolore e la morte non togliendoli dal cammino dell’uomo, ma assumendoli
in sé. Il Dio giusto si sottrae ai nostri schemi di giustizia, che
reclamerebbero la vendetta immediata sui cattivi e sugli accusatori
dell’Innocente: la sua giustizia si rivela perdonando e togliendo
all’omicida anche il peso del proprio peccato. Il vinto che perdona il
vincitore lo libera dalla sua aggressività mortale mostrandogli come
l’amore vinca l’odio.
Dio regna dal legno
Nel legno della croce le prime generazioni cristiane hanno saputo
scorgere il segno della regalità di Cristo.
Gli evangelisti non hanno bisogno di attendere la risurrezione di Gesù
per proclamare l’inizio del mondo nuovo. Già la croce è carica di
novità, è l’inizio di un nuovo ordine di cose. Anche se tutto è
apparentemente finito e le forze del male sembrano avere prevalso su
Gesù, i segni che ne accompagnano la morte (cf Mc 15,37-39; Mt 27,51)
lasciano filtrare la novità: il velo del tempio si squarcia indicando
che l’antico tempio con i suoi ordinamenti e le sue attese è finito. Il
Tempio nuovo è il corpo di Cristo che Dio ricostruirà con la
risurrezione; e il primo ad entrare in questo Tempio sarà un pagano, il
centurione, per la sua professione di fede (Mc 15,38; Mt27,54).
Nell’annientamento del Figlio di Dio nasce una nuova umanità. Il mistero
della morte diventa mistero di vita e di trionfo.
In questa domenica di Passione, la Croce è al centro della
contemplazione della comunità cristiana che in essa legge il progetto
misterioso di Dio e adora la regalità di Cristo. Una regalità che
rinuncia a schemi di potenza umana, che indica per quali strade
umanamente illogiche passi la «gloria»,
che diventa misura di confronto e di verifica net servizio dei fratelli.
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Benedetto colui che viene nel nome del
Signore, il re d’Israele
Dai
«Discorsi» di sant'Andrea di Creta, vescovo
(Disc. 9 sulle Palme; PG 97, 990-994)
Venite, e saliamo insieme sul monte degli Ulivi, e andiamo incontro a
Cristo che oggi ritorna da Betània e si avvicina spontaneamente alla
venerabile e beata passione, per compiere il mistero della nostra
salvezza.
Viene di sua spontanea volontà verso Gerusalemme. E' disceso dal cielo,
per farci salire con sé lassù «al di sopra di ogni principato e
autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si
possa nominare» (Ef 1, 21). Venne non per conquistare la gloria, non
nello sfarzo e nella spettacolarità, «Non contenderà», dice, «né
griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce» (Mt 12, 19). Sarà mansueto
e umile, ed entrerà con un vestito dimesso e in condizione di povertà.
Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e
imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti
a lui lungo il suo cammino rami d'olivo o di palme, tappeti o altre cose
del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda
adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. Accogliamo così il
Verbo di Dio che si avanza e riceviamo in noi stessi quel Dio che nessun
luogo può contenere. Egli, che è la mansuetudine stessa, gode i venire a
noi mansueto. Sale, per così dire, sopra il crepuscolo del nostro
orgoglio, o meglio entra nell'ombra della nostra infinita bassezza, si
fa nostro intimo, diventa uno di noi per sollevarci e ricondurci a sé.
Egli salì «verso oriente sopra i cieli dei cieli» (cfr. Sal 67, 34) cioè
al culmine della gloria e del suo trionfo divino, come principio e
anticipazione della nostra condizione futura. Tuttavia non abbandona il
genere umano perché lo ama, perché vuole sublimare con sé la natura
umana, innalzandola dalle bassezze della terra verso la gloria.
Stendiamo, dunque, umilmente innanzi a Cristo noi stessi, piuttosto che
le tuniche o i rami inanimati e le verdi fronde che rallegrano gli occhi
solo per poche ore e sono destinate a perdere, con la linfa, anche il
loro verde. Stendiamo noi stessi rivestiti della sua grazia, o meglio,
di tutto lui stesso poiché quanti siamo stati battezzati in Cristo, ci
siamo rivestiti di Cristo (cfr. Gal 3, 27) e prostriamoci ai suoi piedi
come tuniche distese.
Per il peccato eravamo prima rossi come scarlatto, poi in virtù del
lavacro battesimale della salvezza, siamo arrivati al candore della lana
per poter offrire al vincitore della morte non più semplici rami di
palma, ma trofei di vittoria. Agitando i rami spirituali dell'anima,
anche noi ogni giorno, assieme ai fanciulli, acclamiamo santamente:
«Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele».
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